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LE GRANDI FIGURE: Dom Romain Banquet / Un suo ritratto

autore: Monastero

Chi volesse porre una sigla alla sua fisionomia morale potrebbe citare ciò che egli disse, morente, quasi supremo monito, all'Abbadessa di Santa Scolastica: «Nessuna mediocrità: toto corde tota anima, tota virtute ». D. Romano fu un blocco di cristallo: compatto, terso, lucente; squadrato a contorni nettissimi; nel quale giocò il sole di DIO, traendone iridescenze mirabili di santità.

La storia ama rilevare nell'infanzia degli uomini illustri qualche episodio che porti, come in «nuce » e in simbolo, tutto lo sviluppo degli anni futuri. Per l'Abate di En Calcat potremmo citare, fra le molte avventure audaci della sua prima età, «il giorno in cui essendomi messo in testa di montare una puledra ancora non doma alla quale ero riuscito a passare alla meglio un laccio al collo, poco mancò che finissi stritolato sotto i suoi piedi. Quando mio padre venne a liberarmi, aggrappato com'ero alla criniera della bestia il pericolo era imminente. Ero quasi svenuto». Se sostituiamo alla puledra l'idea di una indomita, focosa e violenta natura, e al ragazzo che vuole a ogni costo domarla, l'immagine del monaco teso verso le conquiste spirituali, avremo un preannuncio del coraggio e della energia con cui D. Romano intraprese e sostenne per tutta la vita la lotta contro se stesso, per aderire a Dio. Lo scopo della vita monastica era infatti per lui «acquistare la somiglianza con Nostro Signore Gesù Cristo» e il monaco doveva essere «un'anima di vita interiore a progresso indefinito». Permanente quindi la tensione di questa lotta: e per il recalcitrare delle passioni e per la meta che si fa mano a mano più alta. «Non c'è che una differenza fra gli scellerati e i santi: questi reagiscono, quelli cedono» diceva D. Romano. «Vivere è resistere, fare concessioni è perdere terreno». E lui, D. Romano, non cedette mai; concessioni non ne fece, in nessun campo. La forza del carattere, l'intransigenza dei principi sono la nota saliente della sua figura. Non conosceva le mezze misure, i tentennamenti; puntava diritto verso l'ostacolo e lo buttava a terra d'un colpo; una volta scelta una meta, la perseguiva immediatamente, con tutte le forze e con una fedeltà assoluta.
Se, da giovane, dovette attendere più di un anno prima di effettuare il suo proposito di lasciare il Seminario per il Monastero della Pierre-qui-Vire, non fu certo perché la sua decisione oscillasse nel dubbio e il suo desiderio di darsi interamente a Dio subisse rallentamenti di paura e di viltà di fronte al sacrificio. Lo trattenne l'opposizione del Vescovo di Sens, non certo disposto a perdere un soggetto così ricco di promesse, e quella dei genitori; ma quanto a lui, la decisione era già presa il 10 dicembre 1862, e irrevocabilmente. Insofferente di indugi, bisognoso di tradurre immediatamente le idee in azioni, si diede a preparare e quasi pregustare la vita austera che sognava, con ogni sorta di penitenze e di rigori, in un modo che egli stesso, più tardi, definiva «atroce». Per allenarsi ai viaggi del missionario faceva a piedi, sotto il sole, tutta la strada fra Albi e Dourgne: 60 chilometri.
Giunta l'ora benedetta della partenza, egualmente a piedi fa il viaggio di due giorni, « senza un minuto di arresto », verso la Pierre-qui-Vire e sulla soglia del Monastero si inginocchia e prega di morire mille volte piuttosto che trarsi indietro; poi si dà a tutte le osservanze con tale accanimento che il Padre Maestro diceva di lui: «E' un santo, ma vuole andare troppo in fretta; è del sud!». E poiché si conosceva per natura orgoglioso, violento, ribelle, di tutte le virtù monastiche si studia di praticare sopra tutto l'umiltà, e proprio in quei gradi VI e VII della Regola benedettina che rappresentano posizioni di punta nell'abbiezione del monaco.
Per D. Romano, conoscere Dio comportava senz'altro donarsi a Lui; e il dono doveva essere senza riserve. L'aveva capito fin dal giorno della sua Prima Comunione, a dodici anni: «Quel giorno promisi a Dio di essere sacerdote, per meglio donarmi a Lui». Magnanimo per indole e per conquista, aveva in orrore ogni grettezza, ogni calcolo avaro o egoista; volle sempre, per sé e per i suoi monaci, nel servizio divino, la bella generosità che si butta a corpo perduto, a occhi chiusi; che non patteggia. Commentando alle monache di S. Scolastica, il Rituale di Professione soleva dire che la carta che ognuna firma in quel giorno è «in bianco». Nessuna sa quel che Dio poi, ora per ora, vi scriverà sopra; Egli ha il diritto di chiedere tutto, noi il dovere e la gioia di tutto dare.

Col passare degli anni, l' Abate di En Calcat poté attenuare il rigore delle sue penitenze esteriori, ma non l'interezza, la fedeltà, l'universalità di questa quotidiana offerta, in rispondenza alle richieste divine.

Dopo la caduta che gli riuscì fatale, abbordò la Madre Abbadessa di. S. Scolastica, venuta in parlatorio a vederlo, con queste perentorie parole: «Lei lo sa, Dio ha il diritto di prendere tutto, prendere tutto, prendere tutto. Bisogna dargli tutto, dargli tutto»; quasi a prevenire in sé e negli altri parole di rincrescimento per quanto era accaduto. E alla fine di una giornata in cui i dolori erano stati ancor più tormentosi, domandò di ricevere l'assoluzione perché «credo di aver pensato più alle mie sofferenze che a quelle del Signore»: cristallina generosità che teme il più lieve appannamento.

Temperamento militare, da buon francese, da « Romano » di nome e di fatto, D. Banquet prediligeva, per descrivere l'ascesi, immagini di soldati e di battaglie; conforme, del resto, a una tradizione molto antica, in cui rientra anche S. Benedetto.
Del condottiero possedeva l'attività e l'iniziativa, lo spirito organizzatore e la fermezza. Sotto la sua mano vigorosa, il Monastero, pur restando intatta l'atmosfera di carità fraterna, in una perfetta unione di cuori, assumeva qualcosa di militare: rigida disciplina, obbedienza perfetta all' Abate, puntualità alle osservanze. Del capo aveva anche l'atteggiamento esteriore: solenne, sempre perfettamente composto, sorvegliatissimo.
A questa fermezza della condotta morale corrispondeva, in D. Banquet, l'intransigenza e la linearità della dottrina. L' Abate di En Calcat non fu un pensatore. Le dispute filosofiche che pur furono interessanti e acute nel suo tempo e particolarmente in Francia, lo interessarono poco. A lui bastavano pochi principi, saldissimi, su cui appoggiarsi: la Sacra Scrittura, il tomismo in filosofia, le indicazioni del Papa e della S. Sede. A questi teneva con una assolutezza e purezza che gli piaceva di chiamare «la verginità della fede». Davanti a qualsiasi problema, gli bastava un rapido sguardo a questi suoi punti di riferimento, per risolverlo immediatamente, rifiutando tutto ciò che era ad essi anche soltanto estraneo. Non entrava in discussioni sottili, non polemizzava, non cercava un piano di dialogo con l'avversario, né, tanto meno, quanto di verità ci poteva essere nell'errore altrui. Di Cartesio diceva semplicemente che era «figlio di Lutero»; ad ogni buon conto, metteva in guardia i suoi monaci contro tutte le «novità». Uomo di punta nell'ascesi, non lo era affatto nella speculazione. Pur non disprezzando l'esegesi, nel commentare alle sue due Comunità i Libri Santi - e in 38 anni quasi tutti passarono sulle sue labbra - si attenne sempre a un commento ascetico e mistico: la scienza dei dotti gli importava assai meno di quella dei Santi. E tutto questo non per difetto di intelligenza, ma per temperamento e per disciplina.
La sua direzione spirituale era semplice e sobria. Non lunghi e complicati esami, non sottile psicologia, nessuna pietà per le illusioni, le fantasticherie, i difetti camuffati, le grandi e vuote parole. Mirava al pratico, dava ordini più che non persuadesse e dimostrasse con lunghi ragionamenti. Per chi poi viveva sotto una regola e un Superiore, l'obbedienza doveva bastare, da sola, a risolvere ogni difficoltà. Non smussava il Vangelo, non minimizzava il Cristianesimo.
Per questo insegnamento così netto e virile, poche parole bastavano «I colloqui spirituali non occorre che siano lunghi, ma è necessario che siano ricordati e sopra tutto messi in pratica». Un giorno una delle sue figlie si accusò di essere stata un poco distratta durante il ringraziamento dopo la S. Comunione. Si sentì dire soltanto: «Figlia mia, è la divinità», ma con tale forza nella voce da non potersene dimenticare più.
Troppo sobrio per essere enfatico, troppo austero per essere parolaio - durante i quattro anni di Noviziato alla Pierre-qui-Vire non ebbe da accusarsi neppure di una parola inutile - anche predicando ritiri o facendo le istruzioni ai suoi figli aveva una eloquenza scarna, incisiva come una lama; le parole su cui voleva insistere, le ripeteva due, e anche tre volte. Così, a proposito della piena adesione del monaco al suo Abate: «Chi si allontana dal Superiore, si avvicina al diavolo». «Quelli che si appartano dall'autorità, non lo faranno mai, mai, mai impunemente».
Questo carattere di sobrietà e di energia informava la stessa pietà di D. Romano. Fin da quando nel Seminario di Albi aveva incominciato a darsi all'orazione, aveva imparato ad ancorarla saldamente sulla volontà, senza far gran conto della commozione del sentimento e dei moti della fantasia. La sua preghiera era umile e perseverante. «Dobbiamo metterci ai piedi del Divin Maestro e supplicarlo di convertirci». «Dobbiamo essere mendicanti accaniti per noi e per gli altri».
Don Banquet non era un teorico, un astrattista, e forse possiamo connettere a questo senso del concreto la sua predilezione per il Mistero Eucaristico. Dinanzi a Lui l'Abate Banquet passava lunghe ore, ne faceva l'ispiratore di ogni suo atto, il confidente e il consolatore di tutte le sue sollecitudini. «All'età di 19 anni il Tabernacolo era già divenuto ciò che è rimasto sempre per me: il centro unico della mia pietà e della mia vita interiore. Senza alcuna idea particolare, senza grazie sensibili, là la mia anima era attirata da una attrattiva misteriosa e dominatrice». La Messa, con quel Gesù fra le sue mani e scendente vivo nel suo petto, era il suo Paradiso già in terra, il culmine della sua giornata. «Ci penso di giorno, di notte, sempre».
La santità consiste non solo nel sopprimere nel proprio temperamento ciò che è male, ma nell'incanalare verso il bene le naturali tendenze.

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