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LE GRANDI FIGURE: Dom Ildebrando Vannucci

autore: Monastero

L'abate Ildebrando Vannucci, nato a Firenze il 3 giugno 1890, a San Paolo fuori le mura compì il suo anno di noviziato che si chiuse con la professione monastica il 1 novembre 1911.

Vi trovò come maestro il futuro cardinale Schuster che subito intravide nel giovane le rare qualità di cui era fornito. L'animo ben disposto del giovane si aprì tutto all'influsso del maestro. Ne risultò quell'attaccamento profondo, quella piena dedizione che unì per tutta la vita don Ildebrando al suo maestro il quale trovò in lui il collaboratore fedelissimo e, affinatesi le sue capacità, il successore nella direzione del noviziato e poi dell'abbaziato di san Paolo.

Fu abate durante ventisei anni. Fu presidente della Congregazione cassinese; lavorò intelligentemente per consolidare la vita dei monasteri, specie dei minori.

Una preoccupazione vivissima fu nell'ultima guerra mondiale (1939-1945): quella delle sorti di Montecassino, in conseguenza della inconsulta distruzione. Come presidente della Congregazione cassinese, fu affettuosamente ed efficacemente vigile perché l'eredità di san Benedetto non ne restasse menomata. Per questa stessa viva bontà, frutto di vera carità, non si risparmiò di dispensare i carismi del suo ministero episcopale nelle località e nelle parrocchie che lo invocavano, se erano disagiate e povere, mentre si occupava senza tregua anche di molte comunità femminili, spesso da lunghi anni abbandonate.

Di mente aperta e vivace, ebbe tra i suoi precipui intenti il culto degli studi nei monasteri. Fu insegnante di teologia al collegio sant'Anselmo e fondatore della rivista di studi benedettini intitolata Benedictina che fino agli ultimi giorni seguì con interesse e sacrificio.

L'amore per i numerosi monasteri affidati alla sua vigilanza l'aveva spinto, nonostante alcune precedenti sfavorevoli esperienze che si illudeva superate, a intraprendere il 12 luglio 1954 un lungo viaggio in automobile. Al ritorno però fu costretto a lasciare Roma per cercare refrigerio nel monastero delle benedettine di Citerna, che già altre volte lo aveva ospitato. Ma il 20 agosto entrò nella clinica delle suore inglesi a s. Stefano Rotondo. Nonostante le gravi complicazioni del suo male fondamentale, il diabete, si sperava che riuscisse a superarle anche ora e certo nulla faceva prevedere un imminente collasso. Questo fu provocato da una crisi circolatoria e cardiaca la sera del 22 agosto, mentre era giunto da poco al suo capezzale il padre Priore di san Paolo, insieme al medico curante.

Il mercoledì 24, seguivano i funerali e la salma venne accompagnata al Verano, nella tomba del monastero di San Paolo.

Un suo ritratto

Se ci venisse chiesto quale sia la nota caratteristica della "cara e venerata immagine paterna" dovremmo forse ripetere quello che S. Gregorio scrisse della Regola Santa: "precipua per discrezione". La vera discrezione benedettina, che i moderni lontani dalla mentalità di san Benedetto, e incalzati dal ritmo di una attività sempre più vertiginosa non prendono il tempo di esaminare e confondono volentieri con la mediocrità. Invece, alla scuola del Padre dei Monaci, chi dice discrezione dice armonia, equilibrio di tutte le virtù nella giusta valutazione di ognuna, unificazione delle tendenze e quindi pace, serenità nella totale adesione alla volontà del Signore, semplicità che, nella perfetta accezione del termine, è propria di Dio solo.

Veniva tanto spesso al Monastero; mentre lo attendevamo in Capitolo per la conferenza, sentivamo nel chiostro il suo passo leggero e spedito, che sembrava quasi indicarci la facilità e la prontezza con le quali si deve andare nella vie dello spirito.

Il suo insegnamento era sempre sereno ed elevato, sembrava sollevare delicatamente le anime dalla fatica e dalla oscurità delle cose terrene e trasportarle alla realtà divina trascendente ed eterna. E questo sempre; anche quando l'ultima spaventosa guerra mondiale dettava a tutti parole adeguate alla circostanza, ognuna di noi lo ricorda entrare sereno e sorridente, quasi venisse dalle regioni celesti, e tenere la sua conferenza, come se invece del continuo rombo degli apparecchi, che volavano senza tregua nei dintorni, le sue parole fossero state accompagnate dal canto degli angeli. Quando egli si ritirava, ci guardavamo stupite e contente quasi avesse annullato con le sue parole la tremenda realtà presente. Per noi fu profeta. A differenza di tutti quelli, ed erano molti, che ci esortavano a lasciare il Monastero in quei pericolosi frangenti, egli si dichiarò sicuro della nostra incolumità.
E non avemmo a pentirci di aver seguito il suo paterno consiglio.
Aveva un intuito profondo che gli permetteva di rendersi conto esatto delle situazioni e di valutare con perfetta equità persone e cose. Coglieva a volo la loro nota caratteristica e la esprimeva con una sola parola luminosa e profonda.

Non era pronto ai facili entusiasmi, non si lasciava ingannare dalle apparenze, ma scopriva subito la povertà e il vuoto nascosti sotto un esteriore brillante.
Amava parlare di Dio ed era contento quando le sue figlie gli aprivano l'animo, pur rispettando profondamente la libertà di coscienza e non sollecitando mai nessuna confidenza.
Quando lo si vedeva raccolto e grave, nonostante l'eleganza e la vivacità del suo temperamento toscano, si aveva l'impressione che per lui pregare non fosse una speciale attività alla quale si riserva un tempo e un’importanza sia pure predominante, ma l'atmosfera abituale dalla quale la sua anima traeva impulso e vita per tutte le sue azioni.
Infatti quando nei primi anni spingeva la sua carità sino a tenerci il corso di esercizi spirituali, li iniziava quasi invariabilmente dicendo che in realtà per un monaco gli esercizi non dovrebbero essere necessari, perché tutta la sua vita è un continuo, grande ritiro (cfr. cap 49 RB).

Non dava l'impressione di una particolare austerità; la sua era l'autentica mortificazione benedettina, equilibrata e discreta, di tutti gli istanti, che gli uomini non vedono e talvolta non apprezzano. Quando poteva sfuggire all’amorevole vigilanza dei figli, voleva in tutto l'osservanza comune, mentre la sua delicata costituzione e il male che lo minava da anni e che egli sapeva così ben nascondere, avrebbero pienamente giustificato diverse e maggiori esigenze.
Quando egli ammoniva o consigliava si sentiva che le sue non erano mai frasi fatte: quei luoghi comuni, anche sublimi in apparenza, ma che lasciano il gelo nel cuore. Forse per questa ragione le sue parole erano tanto efficaci: brevi, limpide, di largo respiro; chi le ha sentite non potrà mai dimenticarle.

Ebbe il presentimento della fine. A una di noi che vide in parlatorio disse: "Ho sognato il Cardinale Schuster e mi ha invitato a raggiungerlo.
A Lourdes La Madonna mi ha dato un altro avviso (ebbe un gravissimo attacco del suo male nel viaggio di ritorno), al terzo partirò”. E fu così.

Accolse con la consueta benevolenza, direi quasi festosamente, la nostra sorella esterna che gli portò, alla vigilia della morte, nella clinica ove era ricoverato, lettere del Monastero e, per mezzo suo, mandò alla Rev.ma Madre Abbadessa e a tutte noi l’ultima benedizione.


Se ne andò santamente, semplicemente, serenamente come era vissuto e il suo ricordo è in benedizione presso tutti quelli che ebbero la grazia di conoscerlo e che oggi lo invocano, sicuri che egli continuerà dal cielo la dolce carità di cui fu tanto prodigo in terra.


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